• GENERI TRATTATI: AMORE, ETERO, GELOSIA, INTRIGO, ORGOGLIO, PASSIONE, TRADIMENTI, TRIVIALITÀ
  • CARATTERISTICHE: OPERA COMPLETA IN VERSI
  • ANNO: 1530

Scritto da Pietro L’Aretino (1530)

Capitolo Primo

D' una frusta bordel, ladra impudica,
Vengo a cantar gli horrendi portamenti,
La qual, con cul rabbioso e con la fica,
Corrompe i cieli, ammorba gli elementi,
E di bestiali cazzi è piu amica
Che non è 'l mal Francioso degli unguenti:
Piu golosa de' cazzi è la sua foia,
Che d' impiccar e di squartar il Boia.

Io non invoco ser Giove o don Marte,
Come i poeti pecore ogn' or fanno,
Per impiastrar le lor coglione carte,
Ch' odor né sapor in se non hanno.
Tirati, Apollo ciaratan, da parte
Con donne Muse, e non mi date affanno,
Se i versi miei non vi chiaman rimando;
Ch' a chi può più di voi mi raccommando.

Supplico te, grandissimo Aretino,
Plus quam perfetto, da ben e cortese,
Pel tuo spirto diabolico e divino
Che tienti al nome eterno torcie accese,
Ch' a me, ch' oggi t' adoro a capo chino,
Presti tanta di lingua, che palese
Faccia dall' Arsenal fin alla Tana,
L' opre poltrone di una gran puttana.

Io ten prego, Aretin, per quel terrore
Che ne vitij de' Prencipi ogn' hor metti,
Pel Re, pel Papa e per l' Imperatore,
Che temon l' ombra de' tuoi gran Sonetti;
Son di te privo in banco un ciurmatore
Senza serpi, triaca e bossoletti,
Son in pergamo un Frate senza voce,
E paro un crocifisso senza croce.

Hora col tuo favor vo cominciando
La narration d' una gaglioffa rancia,
C' ha fatto più con la potta ch' Orlando
Non fece colla spada e con la lancia.
Io non vado le favole cantando
C' han fatto i bravi Paladin di Francia,
Ma quel ch' io dico è più chiaro e più vero
Che non è la leggenda di San Piero.

Nell' Arca di Noe, dico in la degna
E buona robba, Venetia divina,
In cui Domenedio pose in consegna
La pace di Marcone, sera e mattina,
Nacque... ma la mia lingua a dir si sdegna
Chi sia la brutta Ancroia malandrina;
Che tale è di colei ch' io canto il nome
Ch' infameria cinquante antiche Rome.

Cinquanta Rome infameria costei
De cazzi e de coglion stalla e taverna,
Che s' ella stesse mezz' ora fra li Dei,
La gloria scemeria di vita eterna;
E buon per te, Venetia mia, che sei
Del Sol più chiara lampada e lucerna,
Che questa vacca, ch' ogni fuoco brama,
Seco in bordel ti poneria la fama.

Hor state a udir, col mal che Dio le dia,
O delle donne inimici Signori,
La stomacosa sua genealogia,
Derivata da. ladri e traditori:
L' arciavol sito fu boia, tuttavia
Che su le forche poi finì gli amori;
Hebbe un figliuol d' opre ribalde e ladre,
Ché d' esser meritò padre a suo padre.

Costui putto fu frate, e poi sfratossi,
Garzon fu d' hoste, e guattaro in cucina,
Alla gabella per ladro acconciassi,
Fu sbirro e zaffo, e fe vita assassina;

Fu ruffiano, e in Ghetto sbattezzossi,
Coronato ogni di stava in berlina,
Campeggiando il poltron fra le colonne,
Come in la messa il Kirieleysome.

Cento volte bollato fu il furfante,
E frustato ducento a gran honore;
Senza naso sen già, bello e galante,
E tenea mozze l' orecchie a favore.
Del mondo le prigioni tutte quante
Avea scopate il poltron traditore,
Et i tratti di corda, d alto a basso,

Per ischerzo pigliava, e per ispasso.

Questo l' avolo fu della Signora,
Che creò il padre suo,  poltron da poco,
Di cui li quarti si veggon anchora,
Spoglie e trophei de le forche e del foco.
Ma la sfacciata porca traditora,
Per vana gloria racconta, e per gioco,
Come suo padre, ladro e scelerato,
Rise a la nuova d' esser squartato.

Ma io erro dì grosso a dir che nata
Sia di boia, assassino, ladro e zaffo,
Per ch' in quell' hora infame e scellerata
Che nacque lei, de le sgratiate il cazzo,
In sperma che da sua potta arrabiata
Vien come vin dal tin, toltoli il zaffo,
Si converse il Demonio detto l' Orco,
Nel cazzo intrando a quel vigliacco sporco;

Nel cazzo entrò del vigliaccon, che padre
Tiensi a la marcia e putrida vaccaccia
Ch' abbrugiar e squartar sue membra ladre
Tosto vedrò, con dir: Buon pro ti faccia!
Ma Perché intorno stavanno armate squadre
D' ostinati piattoni a sua pottaccia,

L' Orco d' inferno ha piu volte giurato
Che fu da quei per esser divorato.

Cortei dunque de l' Orco è nata al mondo,
E non di cazzi umani e di coglioni,
E pero nel suo cul largo e profondo,
De cazzi notomia fanno i sargnoni
;
Il qual, per foia e per rabbia iracondo,
Col Ciel guerregia in far saette e tuoni,
Et avvien che Messer Ciel seco ogn' hor perda,
Ch' ei trae fulmin di fuoco, ella di merda.

Il padre suo, mastro Demonio, quando
Vuol tentar un Romito, in tana o in grotta,
Vassi in quella novella trasformando,
C' ha la carne fa far oglio e ricotta ;
E costei su dal cul va i panni aliando,
Con mani mascherandosi la potta,
Dicendo: « Ecco i triomphi, ecco i trophei!
Strenui cazzi,
miserere mei. »

Gl' ignoranti corrivi et ingordi cazzi
Corrono al cui qual amanti a i zibetti,
E come quel che litiga a i palazzi,
O come sposa a biacche et a belletti;
E del cut incantato son più pazzi,
Che i puttini de' frutti e de' confetti:
Diventan del gran cul più ghiotti e matti,
Che i Frati a sorbir brodo e leccar piatti.

Ma lasciam gir le chiacchiere e le fole,
E sia di chi si sia madre o figliuola,
Perché se io spendo in ciancie le parole,
Di mie proposte mento per la gola;
E se non fugge o se non s' asconda il Sole,
O se in qualche hosteria non vola,
Mentre narro di lei i mezzi peccati,
Dite ch' il Sol è re de gli sfacciati.

Questa invitta carogna, un di sentendo,
Che l' Ancroia, Marphisa e Bradamante

Andar pel mondo gran prove facendo,
Ad onta di Macone e di Trevigante,
Grand animo in la potta et in cui havendo,
Deliberò farsi Puttana errante,
E la foia a Venetia havendo doma,
Qual diròvi s' armò per gir a Roma.

Fut la corazza sua d' una schiavina,
Che reggeva un baston aspro e nodoso,
Ricamata, per opra damasquina,
Di lebbraccia, rognaccia e mal Francioso;
Il suo cimier, sopra la celatina,
Hospedal triomphante e pidocchioso,
Porta la Fame, e per lancia e per scudo
La potta spalancata e 'l cui ignudo.

Con queste armi costei giunse a Ferrara,
Et un cartel messe fuora una notte,
Che dicea dì voler per forza e gara,
A tutte le ampie Ferraresi patte,
In campo, al suon de la taratantara,
Mantener a le intiere et a le rotte,
Che la sua mczzo braccio più larga era,
D' ogni sfondata baiarda bandiera.

Comparse al paragone una ribalda
Che lo scettro in bordel tenne ottant' anni,
Qual, pigliando la potta in una falda,
La slungava tre dita sotto i panni.
Otto figli havea fatto in una calda,
E non ha tante gioie il Prete Janni,
Quante ha la potta sue creste d' intorno,
Più larga assai che la bocca d' un forno.

Quattro in mezzo al bordel canonizzati
Dotti e reverendissimi Ruffiani,
Giudici fur de le potte chiamati,
U' te piattole abbaian come cani;

In presentia di sbirri e preti e frati,
Come Pilato, si lavar le mani
De l' immensa e gran vulva Ferrarese,
E quella incoronar del mio paese.

Com' ella fu di porri laureata,
Per non parer ingrata ne cogliona,
E per mostrar de jure esser lodata,
In quadro s' arrecò con la persona,
Et un di quei
col qual si fa l' agliata,
Più longo che non è da vespro a nona,
Ne la gran potta cacciossi l' Alfana
;
A laude e gloria gran puttana.

Poscia un bando mandò per le taverne,
Per cucine, gabelle e sbirrerie,
U' fansi i dadi, u fansi le lanterne,
A barberie, ciurmane, fraterie,

Tra manigoldi, ciaratani e cerne
,
Fra le fetide Hebraiche genterie,
Come sua poatta, in foia rimbambita,
Tiene a cazzi otto dì corte bandita.

Come a lo specchio del sol i furfanti
Corrono, quando il freddo gl' assassina,
Come a le feste i ben vestiti amanti,
E come i missier Medici a l' orina,
Come al tambur, che va davanti, i fanti,
Come a' fichi la fame contadina,

Cosi i cazzi plebei corrono in frotta,
A tor il giubileo da la sua potta.

Chi vide mai correr briachi al vino,
Quando d' havcrlo buon vantasi un hoste;

Chi ha veduto, in man d' ogni facchino,
Affrettarsi a carcar merci riposte;
Chii mai ha visto, nel giuoco assassino,
Gìuocatori affrettarsi a metter poste,
Veggia i cazzi sfrenati andar a furia
Alla gran potta, d' ogni cazzo curia.

Un million, sopra duo mila e venti,
hebbe Sua Signoria di fottiture;
D' Adamo et Èva in qua, nostri parenti,
Mai fur le più bestiali c le più dure.
Vomitar le budella tutti i Venti,
Sconcacarsi le Stelle e fersi oscure,
A i puzzi de lo sperma horrendi e fieri,
Ch' ammorbar i profumi et i profumieri;

E se non ch' a la putrida carogna
Diè bando il Boia, con le stafilate,
Bel bello ne venia ogni cicogna
A fargli ne la potta le nidiate.

Hor ella giunse in mal punto a Bologna,
Dove a gran culi le palme son date,
E chi vuol dir gran cosa in quel paese,
Con boria dice sol: « Cui Bolognese! »

Giunta costei u son più Cavalieri
Che vizi e tradimenti in frati e preti,
E che ossa di morti in cimiteri,
E ch' a Vcnctia barchette e tappeti,
E nel Giorno de' Morti offici e ceri,
Et hipocrisie in Monsignor di Chieti;
Più Conti c Cavalieri ha quella terra,
Che furti e sangue e bestemie la guerra;

Prima ch' alcun la contemplasse in ciera,
Con modo bel la puttanaccia, et astuto,
Fece spiegar in piazza una bandiera,
Dove chi la rimira hassi perduto:
Perché si fotte in si strana maniera,
Et in tante vie che più non s' è fottuto,
Che la gente spiritata non lo credei
Ma fanne il culo e la sua potta fede.

Come ogni sorte di serpe bizarro
Nelle bandiere son de' ciurmatori:
L' aspide sordo e la biscia e ' l ramarro,
Cosi ancho ha fatto, in gesti traditori,
Pinger la vacca da carretta e carro,
Cazzi Hebbrei, cazzi Turchi, cazzi Mori,
Cazzi Christiani e cazzi rinegati,
Cazzi Re, cazzi Papi e cazzi Abbati.

Chi fotte a gambe in collo, a la Gianetta,
Il ranocchio, la grue, la potta indietro,
La chiesa in campanile, e la staffetta,
Con il cazzo dinanzi, e 'l cazzo dietro,
Et ogni modo ch' a a fotter diletta,
Quando si parla e quando si sta scheto,
Perché il chiavare ha settanta due punti,
Senza molt' altri chi ella havea aggiunti.

Un suo berton, ch' ha un grosso battistero
Pieno di quelli scropuli bestiali
Ch' un manico ha di spiedo da dovere,
Che s' adopra a la caccia de' cinghiali,
Per Bologna sen giva tutto altero,
Col tambur; per le strade principali;
Dicea sonando: « Chi cazzo ha di mulo,

A la Scimia
l' aspetta un da buon culo;

Il più gran cul ch' abbia veduto anchora,
In duo secoli o tre, bordel né cazzo;
Lo qual ha manomesso una Signora,
Per satiar cani e porci da solazzo. »
De le botteghe; a quelle grida, fuora
Esce la turba con un volto pazzo,
E corre ov' il berton dicea gridando,
Come la plebe a quel che narra il bando.

Non ragunan cantando i cìaratani
Tanti goffi ad udir le lar novelle-,
Ne tanti putti, furfanti e villani,
I maestri che fan le bagatelle;
Ne tu dieci beccarie son tanti cani,
Ingordi di sanguaccio e di budelle,
Quanti ragunò ladri e manigoldi
Quel gran ad triomphal da quattro soldi.

Come la turba degli sciagurati
A fotter il tambur hebbe ridotta,
La scanfarda plebea s' ha ì panni alzati,
E dieci cazzi inghiottì con la potta,
E con cul altretanti smisurati;
Poi da cattiva, malitiosa e ghiotta,
Per mostrar ch' è magnanima Signora,
Faceva a chi l' è dentro, a chi l' è fuora.

Ella dicea: « Brigata, sono in culo,
O sono in potta questi venti cazzi ?
Chi vttol giuocar che son et in potta et in culo,
E che son dietro, e che dinanzi i cazzi ? »
E ciò dicendo, in la potta e nel culo
Al popol mostrava tutti i cazzi,
Et in destrezza di cul, mastro Muccio
Perderebbe con lei fin al cappuccio.

Fatto ciò, fece di gorgia un bell' atto,
Che di stupor stupì fin lo stupore:
Ella rapì con la bocca in un tratto
Il cazzo horrendo d' un Predicatore,
Sorbillo come un uovo, e sputò ratto
L' anima di quel cazzo peccatore.
Tal che la turba ladra, di concordia,
Stupefatta, gridò: Misericordia !

Mostro questo miracolo a la gente,
Coram
popolo fè venire un cane,
Di macelli e pagliai luogo tenente,
Profumato di merda e d' ambracane:
Era egli zio, nipote e buon parente
Là, nel
Buovo d' Antone, a Pulicane;
Questo figliol bastardo è de la Diva,
Che per vituperar il mondo è viva.

Il gran lussurioso mostro caro
Ella con cul partorì senza doglia,
E l' acquistò, nel mese di Gennaro,
Da Cerber, che di fotterla hebbe voglia.
Hora il can traditore, visto il cul raro,
Il cazzo delle pelle a un trato spoglia,
E nel cui ond' usci, con spinte ladre,
Cacciollo della sua cagnaccia madre.

Mentre ch' a buggerarla il can è in ballo,
E che ' l gran cui da la potta non falla,
Con una soma di paglia un cavallo
Gia passo passo a scaricarla in stalla,
E visto il can, ch' in cul ha il piedistallo,
Credendo ch' ella fusse una cavalla,
Fremitendo e ringendo, a foia sciolta,
Gì de la vacca trentin
a la volta.

E senza riverenza, o discrctione,
Facendosi far largo a la chinea,
Piantolle il cazzo dentro al pettignone:
Hor pensal tu se la gente ridea !
Spingea di dietro il cagnaccio poltrone,
E' l cavallaccio dinanzi spingea.

Un buggera et abbaia, un fotte e rigne,
E questo per veder quell' altro spigne.

Il tumulto, il rumor, il fischi, il giuoco,
Della canaglia gaglioffa, ignorante,
Era si grande e si ladra, in quel luoco,
Che vi corser le genti tutte quante
In questo, messe un ladroncello il fuoco
In la paglia del cavallo errante:
Ecco il fumo e la fiamma, et al ciel le strida,
Et ognuno: « Guarda, guarda il fuoco! » grida.

Il Sodomita can non può trar fuora
La chiave, sin che non si sdrizzi il cazzo,
E 'l cavalaccio, ch' è sul fare allhora,
Non si vuol levar dal quel solaffo.
Gridava: « Acqua! acqua! » quella traditora;
In tanto il fuoco, che di arderla è pafzzo,
Con tanta furia il bravo caval sprona,
Che si pose a fuggir con la poltrona.

Con la poltrona sul cazzo, il destriero
Si messe in fuga, spazzando il terreno;
Il can che gli facea dietro il cristero
La graffiava e la mordea, pien di veleno.
Volse il Diavol, da beffe o da dovero,
Che il cavallacciosi gettò nel Reno.
Ma, a rivedersi; vo posarmi alquanto,
Per poter cicalar meglio in altro Canto.

 

Capitolo Secondo

Lingua d' acciaio e voce di bombarda,
Stil arrabiato et ingegno furibondo,
Una penna che tagli, un foglio ch' arda,
Tromba che t oda fin dall' altro mondo,
Bisogna a me, per dire a la gagliarda
D' un cul che non ha né fin né fondo,
E d' una potta ù 'l morbo si raguna,
La piu larga che sia sotto la Luna.

S' io havessi quanta carta ha Fabriano,
Et inchiostro fosser laghi, fiumi e mare,
E se tutta la selva di Baccano
Per calami facessi temperare,
E s' havessi duo visi come Giano,
Per poter con due lingue cicalare,
Non basteriano a squinternar senz' arte
Della potta e del cul la minor parte.

Io so ben che fo mal da buono inchiostro,
A farti nominar, asina, troia,
Che non sol arrossir fa il secol nostro,
Ma si vergogna a nominar il Boia.
Carte, io conosco offender l' honor vostro.
Ma gl' è forza ch' io canti, o ch' io mi moia,
Perch' iò io son liber huomo, e tutto fuore,
E di voi arcischiavo e servitore.

Io non vi pasco in monte, in selve, in valli,
Di foventi lascivie e vaghe herbette,
D' unquanco isnelli e liquidi cristalli,
D' ombre soavi e dolci parolette,
Come fan quelli che i Pegasei cavalli
Scortican ogni dì per le staffette:
Io dico pane al pane, e cazzo al cazzo,
Per dir il ver, per odio e per sollazzo.

Poi è honesto impazzir da dovero,
Se non tre volte, almen semel in anno,
E perciò 'l vostro Lorenzo Veniero
Ha messo hora 'l cervello a saccomanno
.
Non scapperia, non ch' un giovin, San Piero,
Tanti a noi le puttane arlassi
fanno.
Ma vo tornar dove lasciai l' Ancroia,
Acciò nè l' acqua ella e' l cavali non moia.

Signori, io vi lasciai, ne l' altro Canto,
Come il caval, col cane e con la vacca,
Gettosi al fiume, havendo il fuoco a canto,
Il fuoco, pasto sol de la Zambracca;
Giunto nel Reno, il cagnaccio fè tanto,
Che sferrò del gran cui la chiave stracca,
E cosi fè il caval, boriando forte,
E nel fiume lasciar la lor consorte.

La buggerona, col culi annegando,
Fe' voto, s' ella uscia de l' acqua viva,
Quattr' anni gratis gir dietro allogiando
De cazzi ogni stupenda comitiva.
Promesse visitar peregrinando
Del mondo ogni bordel a suon di piva,
E fatto il voto ex corde, ecco un villano
Servus servorum di San Cresci in mano.

Questo villan, miracolosamente,
La scanfarda
cavò del fiume, e poi
Dietro e dinanzi la tocca, e pon mente
Tanto che s' incazzi
de' fatti suoi,
E sguainò un Priapo fottente,
Che l' han minor tre dozzine di buoi;
Dice Turpin chronista, ch' egli era
Come quel d' un muletto a primavera.

Quando l' hostessa d' ogni Taliano
Volse a la bestia lo sfacciato viso,
Inginoccioni a lui alzò la mano,
Che le parve veder il Paradiso;
E fremitando la sua vulva e l' ano,
Disse ; « L'
ancilla tua, hor va improviso
Cœli coelorum ne la tua presenta,
E vada si a impiccar chi vive senza ! »

Ella dicea: « Cazzon santo e divino,
Incazzato, melato, inorpellato,
Dolce mio Tìbaldeo e Seraphino,
Il mio culo ti sia raccommandato ! »
Poi, raccoltolo in man, come un bambino
Recasi la mamma quando l' ha ha fasciato,
E lo bascia e ribascia, con l' amore
Col qual Venere porca bascia l' Amore.

Al fin de le carene, la lebbrosa
Al cazzo si lanciò, che n' è più matta
Che le genti di bere a la Franciosa,
E parve a lo schermar proprio una gatta,
La qual ruzza col topo, e poi rabbiosa
Gli fa co' denti galante la tratta;
Ma la gatta è men ria, Perché flagella
Con bocca il topo, e col cul i cazzi quella.

Jl cazzo rustican fuor di misura
Il cul marcio inghiottì fin a coglioni,
Con quella fame ch' il villan pastura
D' uve, fave, ciriege e di melloni;
Qual morto inghiotte una gran sepoltura,
Il gran cul, boia di cazzi stalloni,
Trangugiò il gran battaglio contadino,
Dì Macone a la barba, e d' Apollino.

Quando il cazzo asinino il cul trascorse,
Fegli honor regio il suo gentil budello,
L' anima in cima al duro cazzo corse,
Sentendo tanta dolcezza di quello:
Di morir la puttana stette in forse,
Per l' allegrezza del cazzo novello,
E pel soave e fottuto martiro,
Sul cazzo tramortì con un sospiro.

Quando ser contadin, sul cazzo morta
Vede la dishoncsta lupa cagna,
Cacasi ne le brache, e si sconforta,
Che si credette haver rotto la ragna.
Eccoti, mentre a destarsi l' esorta,
Con cento sbirri il Bargel di Romagna,
Col Boia appresso, di capestri adorno,
Per far sicuro il paese d' intorno.

Come il Bargel vidde il villan, con quella
Che par morta, sul mel che fan le fave,
La spada affranca et imbraccia la rotella,
Tal che è forza ch' egli sferri la chiave,
Perché la chiurma lo stratia e flagella;
Già ' l Boia è fuor; per tagliargli la trave,
Fa visaccio la bestia, e grida e priega,

Et in testimon com' è la cosa allega.

Hurlando conta il mal giunto villano
Come colei scampò, che s' annegava,
E come la ribalda, di sua mano,
Nel cul il cazzo ch' ella vede inchiava.
Dicea al Boia il Bargel: « Squarta pian piano »
Questo poltrone, .il qual messo ha la fava »
Nel real, signoril, perfetto tondo,
»
Che' l più ghiotto boccon non mangia il mondo»

Come quel pover huomo senti' l Bargello
E vide il Boia ch' a' ladri l' accocca,
E' cacciò uh grido simigliente a quello
Che fa la guardia la notte a la Rocca.
A questa voce, Madonna il cappello
Levò da gli occhi, schiavando la bocca,
E visto il drudo tra la ciurma stolta,
Fu per morir da vero un altra volta.

« Bella cosa! ' disse ella: « parvi honesto,
Che 'l miglior huom che sia ' n questo paese,
S' habbia a impiccare? Io vo che 'l sappia presto
Monsignor qui Legato si cortese.
S' io vo morir, pestando l' agresto
,
Va a le mie, non a le vostre spese ;
Havete autorità, sbirrazzi pazzi,
Sopra i gran ladri, non sopra ì gran cazzi. 

Io vi farò veder, sbirri poltroni,
Che fate mal a far ciò che voi fate. »
E certo con la stalla de' piattoni

Ben cento picche da sbirri ha arrestate;
Hor, chi sentisse il batter de' coglioni
E 'l feroce colpir de le scazzate,
Diria per certo ch' ivi fosser rotte
Mille lancie di carne c mille potte.

Trenta sbirri i più bravi e più bestiali
Da la strenua potta fur conquisi,
Gli altri col cul, ch' ha i sargnon per puntali,
Parte presi in battaglia, e parte uccisi,
Parte, feriti da foiosi strali,
Stetter un pezzo forti su gli avisi,
Ma l' invitta e gran Dea, qual non adulo,
Al fin gl' incatenò dentro al suo culo.

C era il Boia rimaso mezzo morto,
Et in ginocchio' lanciossi stupefatto,
Con dir: « Signora, non mi fate torto. »
Disse ella:
« Leva su, fottimi un tratto. »
Egli alhor dietro cacciò il conforto;
Ella ghignando dicea: « Non far, matto,
Fa pian, più in là, più qua, più su, è cosi ;
Di grazia, Boia, tienti tutto ' 1 dì. »

Non par il bere si buon a chi ha sete,
Nè il sonno et il dormir, quand' uno è stracco,
Nè si soave la Monaca al Prete,
Ne piace a gl' huomin grossi tanto il macco,
Nè a' falsari il tosar de le monete,
Né ' l fango al beverone e lordo ciacco
,
Nè a' gran Signori è cosi gratto un pazzo,
Come a costei quel manigoldo cazzo.

Un giorno et una notte su la piva
Stette Sua Altezza col Boia honorando,
Senza mangiar, Perché una potta diva
De' fottisteri suoi sì va cibando.
La pettegola al fin, de' cazzi schiva,
Come i Romanci del cantar £ Orlando,
A Fiorenza n' andò, quasi a chiusi occhi,
Con fantasìa di sfoiar que' gran marzocchi
.

In die festo comparve a Fiorenza
L' Errante e puzzolente Paladina,
Con quella puttanesca continenza
Ch' ha di bordelli e di chiassi una reina;
D' alchimisti parea la quintessenza,
E monn' Honesta da Campi divina.
Che faceva d' un gran d' uva due bocconi,
Et un mezzo del cazzo e de' coglioni.

Io vorrei dir de l' Alfana gaglioffa,
Ma lo stil fugge tal gagliofferia,
Che in modo il foglio e 1' inchiostro ingaglioffa,
Che il vil Noal non la sgagliofferia,
Tal ch' esser parmi, in la rugna gaglioffa,
Un ser berton de la gagliofferia,
E ch' ingaglioffatto del suo amor gaglioffo,
Stassi fuora dì se, come un gaglioffo.

Ma dirò pur, Nimpha di Carampana,
Le tue virtù, da forche venerande.
La sempre augusta et heroica puttana,
Che del suo cul è il Culiseo men grande,
Giunta a Fiorenza fecevì quintana,
E perché a lei, come porci a le ghiande,
Corressero i cazzon d' ogni furfante,
Il corno suona e sfida l' Amostante
.

E dice nel suonar: « Se c ' è in bordello
Ruffian di si gran cazzo e si gran core,
Che voglia meco giostrar a l' anello,
Venga a trovarmi e proverà l' amore.
Io sfido ogn' hoste ghiotto e traforello,
Ogni ladro, impiccato et traditore,
E Paladin d Inghilterra e di Francia,
S' havesse ben de l' Argalia la lancia. 

Et ognun che verrà meco a la giostra,
Sia pur nel cazzo Margutte o Morgante,
S' al primo incontro no' l caccio di giostra,
Vo il titol perder di Puttana errante.
Si che, gran cazzi, senza far la mostra,
Venite, che' l mio cu fiero e tonante
V' aspetta in campo, in quelt altera guisa
Ch' aspettava Brunel donna Marphisa. »

Detto questo, recossi a culo alzato
In mezzo il campo, in fottut' atto altero.
Sentendo il suon, un Cuoco sciagurato,
Ch' era del mal Francioso il cimitero,
Si messe in punto, col cazzo affatato,
Stimando i culi come i conti un zero,
E correndo venia, gridando forte:
« A l' arme, a l' arme! a la morte, a la morte! »

Come la lendinosa slandra ladra
Vide l' infranciosato furfantone,
La sua nervosa incazzita hasta squadra,
Ch' a lei ne vien come il nibbio al polmone,
Poi la sua potta, nè tonda né quadra,
Incontra e sprona al Paladin poltrone,
Et adosso se gli avventa e se gli afferra
Come sopra la Pace fa la Guerra.

Quando it Cuoco, di doglie e di bolle armato,
Quel tremendo cazzon portando in resta,
Vide la potta a uscio spalancato,
Pensò di dietro far più bella festa,
E nel cul bellicoso, dispietato,
Sigillò
verbi gratia il cazzo a sesta,
E conforma cotanta entrogli dentro,
Che i coglioni sudaron di spavento.

Come d' ogni bordel la semidea
Sentì il colpo del cazzo traditore,
Contra Rinaldo parea proprio Antea,
Quando giostrando faceva l' amore.
Menò del cul la Christiana Giudea,
Dicendo: « Se ben ho più cul che core,
Ti manterrò ch' a sfoiarmi non basta
Questa ch' a dietro m' hai post' arma d' hasta. »

Al fin de le parole un colpo mena,
Con le chiappe del culo smerdolate,
Ch' in terra al Cuoco fa batter la schiena,
Che ne crepar de rider le brigate.
Il cazzo, ch' il budello gli rimetta,
Tagliava a pezzi l' anime non nate,
Che nel cul, magazin d' oglio di fave,
Per salva guardia stan d' ogni gran chiave.

Visto il gran colpo infardato e stupendo.
Ch' il Cuoco in terra col cui ha battuto,
E' l cazzo morto nel duello horrendo,
N' ebbe la turba un gran dolor fottuto:
In questo, un Fratacchion venne battendo,
Col cazzo in resta, in cima rosso et acuto,
E dìcea, spronando la sua foia
« La potta et il culi stretto moia, moia! ».

La mechanica putta vecchia e lorda,
Tesoriera di sperma e di sanguaccio,
Non fît mica al dolor del Padre sorda,
Nè stette a dir: « Che fô? ch' ho fatto o faccio? »
Anzi, colla la profonda potta ingorda,

Voltassi al Reverendo gaglioffaccio,
E senza ricoprirsi d' altro scudo,
Gl' attacò de la potta il cazzo ignudo.

Si grande è il colpo ch' in la potta stende,
Che bolge, sacche, valigie e. scarselle
Isquarcia, frappa, taglia, fora e fende,
Tal ch' il cazzo investì ne le budelle.

La porca a gambe aperte allor si stende,
E per mostrar che son tutte novelle,
Era Cipolla inghiottì con la gran potta,
Onde uscì de la giostra ogmm allhotta.

La reverenda puttanaccia in piei
Levossi, e disse: « O cazzi buggeroni,
Venite vi a chiarir de' fatti miei,
Gagliofacci, poltroni, arcistalloni
La Guglia ch' è a Roma in cul vorrei,
C' havesse mappamondi per coglioni,
Che veder gli farei che non è buona
Per storcermi un peluzzo in la persona. »

Stava la gente a bocca aperta ad udilla,
Come i Giudei quando parla la Bibbia,

E parea proprio il popol d' una villa
Allhor che il Kyrie o 'l Passio il prete sfibbia.
Ciarlò la porca da Nona a la squilla,
E mentre la giornea ella s' affibbia,
Venne con cento vacche un tabacchino,
E sotto fella andar del baldacchino.

Gì per tutti i bordelli a processione
La sciagurata et unica zambracca,
Poi andar sene allegra si dispone
Di Sienna a le Maremme, essendo vacca.
Ma vuol prima provar s' un leone
Potesse la sua foia bavere stracca,
Et animosamente entrò fra loro,
Dicendo ad un marzoccho: « Ahimè, ch' io moro! »

Quando quel huom da bene del marzocco
Vide l' Alfana affamata del cazzo,
Isguainò et indrizzò lo stocco,
E per pigliar de la lupa sollazzo,
Giù le fé dar in mal punto trabocco,
E poi che l' hebbe colcata in lo spazzo,
Due zampe in cul cacciolle a più non posso,
Et in potta un braccio di carne senz' osso.

Gli altri bestiali infoiati leoni
Del fotter a l' odor corser in frotta,
Muggiando come il mar e come i tuoni,
Fecero a chi fottea sgombrar lapotta,
E gli cacciar rottolon rottoloni
Di bombarda in la fica una pallotta,
Ch' oltre che fu miracolo a vederla,
Penaro un mezzogiorno a rihaverla.

Ma per esserci: molti Lutcriani,
Eretici ch' anderian scalzi al letto,
Ch' a mille Paternostri San Giuliani
Niente crederian più su ch' il tetto,
Dico ch' ella partì co i membri sani
Da leoni, et andò u sopra ho detto.
Saprete in l' altro Canto, ch' è qui appresso,
Ciò ch' ella fè con l' utriusque sesso.

 

Capitolo Terzo

Sarà qualch' umt hipocrito, ch' in chiesa
Mai non isputa, et ogn' hor bacia lo spazzo,
Poi con gran coscienza a la distesa
Presta cento per cento per solazzo,
Ch' havrà la mia leggenda arciripresa,
Torcendo il muso a potta, a culo et a cazzo.
Cazzone nel forame a tutti quanti!
Io dico a quei che van graffiando i Santi.

lo direi cu e po, e fo, e ca,
Quella cosa, il cotale e la cotale,
Con la boccuccia che chiurmando va
La predica a le Suore un Generale.
Studiato ognuno in cifera non ha,
Però cazzo vò dir, non pastorale,
E cul, non Culiseo; potta, e non fregna,
Che cosi la Natura a dir ci insegna.

S' io dico chiave ne la serratura,
Chi intenderà mai cazzo ne la potta?
Dicendo il membro, va contra Natura,
Bisogna Esopo ch' il commenti allhotta,
E colui ch' il seder pel cui figura,
Si mangia la giuncata per ricotta.
Però, vuò dirlo pian, ch' ognuno m' oda:
Hanno gli huomini il cazzo, i can la coda.

Chi bestialementc ha di dietro la stretta,
Dica: « Io ho rotto il culo » non il sesso;
Quella che d' un gran cazzo si diletta
Può dir: « Lo voglio in potta,» non in fesso.
Chi per Francia spedita ha la bolletta,
Dica: « M' ha il mal Francioso manomesso; »
E per parole stitiche e per pompa
La bella lingua Thosca non si rompa.

Vulva è per lettera, e per lettera ano;
Priapo apena l' intende un ch' è dotto;

Vit
è Francese, carajo è Marrano,
E vuò giuocar con chi vuol un scotto,
Che lo schietto parlar d' un Taliano
Più dolce è che non fu il Piovan Arlotto;
Si dà a la nostra lingua un gran solazzo
Dicendo a bocca piena e potta e cazzo.

Ma torniamo a colei, del chiasso gemma,
Del cazzo anelloe, cintura e collana,
Che vacca essendo, hor' è giunta in Maremma,
Dove stette a cul alto una stomana;
Chi ha più voglia di quel trarsi la flemma
Che Rinaldo d' abbattere de l' Alfana
Mambrìn gigante o la reina Ancroia,
E che i rognosi grattarsi le cuoia.

Era ne la stagion, quando colei
Ch' io canto giunse a la Maremma, ardita,
Che gli asini, co i cazzi Pharisei,
Consumati dietro a l' asine la vita,
E che i muletti, drietti su duoi piei,
A le mulaccie, di lor calamita,
Muggiando, fregnitando et incarognendo,
Son più valenti nel fotter ch' Orlando.

Era il tempo, ch' in foia van perduti
Becchi, becchini, beccacci e becconi;
Quando che son per la fregna battuti
Porchi, porchetti, porcacci e porconi,
E che i Romiti l' un l' altro fottuti
S' hanno, per incazzite tentationi;
Era il tempo che i ladri spensierati
Si fotton l' un l' altro i preti e frati.

Dico che il mese dì Messer Maggio era,
Che fa la terra et il mar crepar dì foia,
Quando giunse a Maremma la bandiera

Ch' hoggi è venuta à tutto 'l mondo a noia,
Al forno, al fiume, al mercato, a la fiera,
Et ogni ladro e furfante la sfoia
E verrà cito, cito, cito a tale
Ch' havrà schifo di lei ogn' hospitale.

Hor lei giunta in Maremma a primavera,
Con rallegrezza che da Aprile a l' anno,
Fermata in campo con foiosa cera,
Mira i cavalli e gli asini che stanno,
Con i cari arrestati, a schiera a schiera,
A fotter lieti le lor manze vanno;
Vede i tori incazziti e qualche bove
Più bello che non fu quello di Giove.

Tanto rumor non fece Marignano,
A l' hora che di Svizzer fu la rotta,
Né dieci mila macine di grano,
Né cotanto ser Ciel, quando barbotta,
Quant' asini e caval, ch' a piena mano
Vanno a trovar ogni sfrenata potta
D' asinacce, mulacce, e cavallacce,
Stringendo in cul carnefice focaccie.

La mia Signora stava badiale,
Come una cagna in mezzo a cento cani
Che li fiutano il sesso e l' orinale,
Con cazzi rossi, torti, inflati e strani;
Che vorria questo e vorria quel cotale,
Come i porri più grossi i villani;
Alfin, di riguardar i cazzi stracca,
Per sua gratia al più grand' ella s' attacca.

Ella vede un torel fiero et ardito,
Ch' havea per cazzo un piè dì cataletto,
Biascia col culo, et aguzza l' appetito,
Perché de la sua potta era il confetto:
Non piace tanto un cappone arrostito
A l' ammalato ch' esce fuor di letto,
Quanto quel toro a lei, che 'l liscia e tocca
E tutta la sua lingua tolse in bocca.

La lingua in bocca e ' l cazzo ne la fica
Si pone, qual riponsi un briaccone
Un gran fiasco di vin ne la vesica,
E come tra moggio di biada un cassone.
Ma gli è forza ch' io crepi o ch' io ìl dica:
Mentre il tor mena, arriva uno stallone,
Un asino, un buaccio, un porco, un cane,
E vennero per lei tutti a le mane.

Ma San Cresci, avvocato de la Diva,
Visibile all' hora apparse in fretta,
Et al toro prima fè suonar la piva;
Poi lo stallone il cazzo in cul l' assetta,
A fotter dopo lui l' asin saliva,
E poscia il bue diagli nel cui la stretta;
Venne poi il porco, in buona volontate,
Al fin il can le diè mille cazzate.

Corrcan le bestie al suo fottuto odore
Come i Zingani a far qualche baratto;
Ma diciam, s' ella impregna per amore,
Havendo in corpo tanto spenna ad un tratto
E si vario di cazzi e di sapore,
Che il Diavol figliando haveria fatto,
Che è forza che la porca, a i cazzi fiera,
Partorisca o fantasma o Chimera.

Come tutta Maremma hebbe sfoiata,
Deliberò tener disputa in Siena
Dove fu per puttana addottorata,
Sol per chiarir qual cazzo ha più schiena
E qual militia è più in chiasso approvata;
De i cazzi dico, ch' hanno nerbo e lena,
Che vuol saper parlar con naturale,
Qual cazzo e più fottente e più bestiale.

La pose in Siena tal conclusione:
«
Utrum s' egli è più militante cazzo,
Quello del Prete, del Frate poltrone,
 O d' il Secolare, che si vive a sguazzo. »
Inteso questo, due vacche stallone
Venner a la disputa per solazzo;.
E ragunata ogni turba ruffiana
Incominciò cosi la mia Puttana:

« Perché per fotter tutti nati siamo,
E senza fotter lieto non si vive ;
Perché tanto godiam quanto fottiamo;
Perché 'l fotter ci fa di donne Dive;
Pero che veramente conosciamo
Che vogliono chiavar fino te pive,
E, che sia il ver, quando 'l villan le tocca, »
 Cacciano tor la sua pinca in bocca ;

Vorrei saper si est il cazzo caro,
O
qui est, vel quod est in questo mondo,
Et quia est in ogni calendaro,
Come sarebbe a dir in quadro o in tondo. »
Rispose una gran vecchia:
« Parla chiaro, 
Ch' in le philosomie
son tocco fondo;
Questo tuo
bus in bas per grammatica,
È un cicalar di gazzuola salvatìca.

« Madre, » rispose a lei la mìa Signora,
« Per dirvi il tutto a lettere di spetiale;
Qual cazzo più nostre patte innamora,
Il temporale, o' lo spirituale,
Ovver l' ecclesiastico, che accora
Di dolcezza la potta, e non fa male?
A me par ch' un gran cazzo d' un buon prete
È più san ch' a l' ammalato le diete. »

« Nego istam, » rispose la poltrona,
« Quia, perché penso,  » disse il Burchiello,
« Che nel Digeste del pesce dì Jona,
Che 'l cazzo non volea senza cappello,
Che non dà prete fottitura buona,
Perché sempre che moia questa e quello
Spettando, incancherito in frenesìa,
Fotte dietro e dinanzi a fantasia.

Cedo vobis, vi cedo, madre dotta, »
Disse l' inclita mia Puttana Errante;
Segue la vecchia, in la rogna biscotta,
Ch' ha le bulle di Francia
tutte quante:
« Hora, lo laico lascio et a buon hotta,
Anchor che sia un fottitor galante;

Perche ha de figli, madre o moglie cura,
Non può darci mai lieta fottitura

E risolviamci ch' un gran cazzo saldo
D' un valent' huomo giovanastro Frate,
Quand' è di brodo e di buon vino caldo,
Alhora che non è verno nè state,
E ch' egli è per la foia grasso e baldo,
Dà fottiture tante spensierate,
Ch' io vorrei
verbi gratia a l' hotta, a l' hotta, 
Ch' ei fusse tutto cazzo, io totta potta. »

Una Matrona lorda e reverenda,
Ch' era la dea de le puttane vecchie,
La quale, ne la sua gotta stupenda,
Tiene alloggiato uno sciame di pecchie,
Fu sempre il desinar, cena e merenda
D' ogni bordello, e come che le secchie
Tengon V acqua del pozzo, cosi anch' ella
È de lo sperma caldaia e scodella.

Disse costei: - « Gli è ver che fra Galasso,
Giovani, valent' huomo, grosso e membruto,
Fa miracoli e dacci dolce spasso,
Se per ubbidienza hacci fottuto;
So che nel fotter mena più fracasso,
Ch' un bestia tempo, non sendo piovuto
Tre mesi inanzi ch' a piover si volta,
E so ch' un Frate macina a raccolta ;

Tamen, quel fiato sempre di fratino,
Quel putiere di brodo e di sudore,
Lo sporco e l' unto et il lezzo caprino,
A me non piace, e dicol di buon core ;
Quel saper sempre da carne, ancho da vino,
D' agliata, di minestre e di sapore,
Mentre si fotte, dammi tanta noia,
Che mi s' abbassa la potta e la foia.

Un Prete ne vien via col suo zibetto,
Musica fagli intorno il ciambetlotto,
Col cazzerino profumato e netto,
Trattenendosi ogn' hor con qualche motto,
E quando ci rovescia sopra il letto,
Gli par d' haver un Vescovato sotto,
Tante dolcezze e carezzine habbiamo, 
E ci baciamo, tocchiamo e fottiamo.

Un secolar anchor, bravo e galante,
Con l' impresa, il permacchio et i puntaletti,
Con passi larghi e con sospir d' amante,
Tutta lussuria, raccami e taglietti,
Puttana nostra et vostra! passa innante;
Con inchini, denari, e con sonetti,
Dicendo: « Anima, cuor, sperala e vita.
Corromperia non ch' altri un Heremita. »

Chi ha mai visto una mulaccia vecchia,
O vacca, o troia, o asina, o cavalla,
Biasciar conbocca per usanza vecchia,
Quando herba e fieno rugama in la stalla,
Veda Madonna, attenta con l' orecchia
A la disputa, e parola non falla,
Biasciar e rugumar con bocca e denti,
E tien per fatti quei ragionamenti.

Una vecchia parlò dopo costei,
Che in tutte le mascelle ha quattro denti;
L' unghie ha d' un palmo de le mani e piei,
Puzza il suo fiato più ch' otto conventi.
La barba ha d' huomo, e gli occhi di Giudei,
Come valigie le poppe pendenti,
I capi radi, et d' un biancaccio giallo,
Qual da caretta ha la coda un cavallo.

Chi dipinta l' Invidia ha visto mai,
Veda la vecchia traditora vera;
La balia par de gli affami e de' guai,
E de l' Epiphania la cameriera,
L' anima de' falsari et usurai,
Madre del Tempo e suora di Megera,
Moglie del Morbo e figlia de la Sciagura,
Piscio del Mondo e stronzi di Natura.

Disse la Vecchia: - « Dio gratia, son vissa,
Bench' io non merti, più che parte mia,
E conosciuto ho ben Santa Nafissa,
Come il suo pesce conobbe Tobbia,
La qual, poi ch' hebbe a ogni huomo manomissa
La castità di dietro tuttavia,
Volse i cazzi beati di buon core
Per sfoiar tutti
gratis et amore.

Io havera via là da undici anni,
O
circumcirca, quando questa potta
Allogiò i primi cazzi, senz' affanni,
Come che alloggia la volpe una grotta;
Nè credo ch' il il giuditio meo s' inganni, 
Infra gl' undici e dodici, una frotta
Pur di cazzi hebbi in culo, e senfa sputo;
Li tenni allegra, e non s' è mai saputo.

A tredeci, in bortdel di Roma entrai
Puttanamente e con riputatone,
Nè senza pianger mi ricordo mai,
Peroché un certo bravaccio poltrone
Il qual di dietro e d' inanzi sfamai,
Sfreggiomi qual vedete, e fu cagione
Ch' a, Napoli n' andassi, in bodel pure,
Dov' hebbi il mal Francioso et assai venture.

Duo anni ivi, a gambe alte stetti, e feci 
Quello che si può far di fottimenti ;
Mi son trovata de le volte dieci
Di Napoli a sfoiar tutti i conventi;
Dopo a Milan talmente sodisfeci,
Quatt' anni ch' i vi fui, c' ho le patenti
Che commandano a i sbirri et al Bargello
Ch' io non habbi a pagar datio in bordello.

Cinqu' altri anni, co i cazzi Mantovani
Intertenne il mìo cul, e la potta anco; 
Co' Bolognesi son stata a te mani,
Per tutta Italia, et ho tenuto al manco
E dieci, e venti e quaranta ruffiani,

E del fotter ben bene ho alzato il fianco,
In galea, per le fiere, in campo, al soldo,
Sfoiand' ogni huom da bene, e manigoldo,

Preti, facchini, traditori e frati,
Romiti, ladri, hosti, secolari,
Giudei Marrani, Spagnuoli soldati,
Monachi, generali e baccalari,
Et ho infino i contadin provati,
E non ho invidia a puttana mia pari, 
Circa il saper ragionar per solaffo
De la natura de l' huomo e del cazzo.

Fra Vhuomo e' l cazzo è maggior differenza
Che non è fra la capra, il becco e' l bue,
E che non è da Ferrara a Fiorenza
E da Roma a quel ch' è , da quel che fue.
Di gratia, habbiate al fotter avertenza,
Perch' io che mille volte, e mille due
Mi son fatto chiavar il cazzo drieto,
A pena so l' importante secreto.

Il cazzo è cazzo, e s' egli è cazzo il cazzo,
Huomo non è, pero che l' huomo è huomo:
Hor, secondario parlando del cazzo,
Primieramente parlarem de l' homo:
Perché precede mescer l' huomo al cazzo
E non sempre è d accordo' l cazzo e l' huomo, 
Se ben il cazzo e rhuomo sempre stanno
Legati insieme come i Mesi a l' Anno.

L' huorno, ch' è solo per il cazzo amato,
Vuol esser d' anni fin a venti sei,
Ch' un che puta di latte è in se fondato
Più che la sinagoga de' Giudei,
Ignorante, villan e spensierato,
Che spinge il cazzo come metta i piei,
Senza roba, esercitio e senza fame,
E che non sempre ci licchi il forame.

Quel che ho detto e quel ch' ho a dire
Intendete, figliuole mie puttane;
Non deve il cazzo sul buco morire,
Come che sul boccon rnuoion le rane,
Ma dee a la potta et al cui comparire,
Come ch' agli ammalati le quartane:
Perch' una fottitura che vien raro
Ci fa quel prò che fa l fuoco a Gennaro.

Un huomo senza roba et esercitio,
Senza fame e pensier, è un porcon Frate,
Il qual tiene opra pia e non tien vitio
Chiavar di dietro ' I suo messer Abbate;
Hora' l cazzo plebeo et il patritio,
Acciò che come io lo conosciate,
Vuol esser qual dìrovvi; hor state attente,
Che questo è' l punto ch' amazza la gente.
  
Il sottil cazzo è un stratio et una morte,
Che ci fa rinegar fu a la fede;
Il longo longo è di più mala sorte,
Perche ritto il poltron mai si vede;
Stroppiccialo a tua posta, e mena forte,
Ch' il manigoldo gaglioffaccio erede
Che la potta et il cul, che vuol in lista,
Sia qualche cosa ammaliata e trista

Il cazzo grosso grosso e corto corto,
È una cosa crudel e traditora,
Perché mentre crediamo haver conforto,
Con gli orli impiti getta l' alma fuora,
E cadeci sul fatto mezzo morto,
E tanto più la potta scann' et accora,
Quanto tu credi, sendo grasso quello,
Ch' egli t' entra nel core e nel budello.

Ìo vo darvi un' esempio: il cazzo grosso
Qual sarta
verbi gratia un gran boccone, 
Solenne, ghiotto e senz' impaccio d' osso,
Di don Fasano o dì messer Pavone,
Che per intrarti in la bocca s' è mosso,
A i labri dando l' estrema unitone:
Che quando credi tragugliarlo, fugge,
Tal che la gola s' impicca e si strugge.

Un cazzone dun piede, morellotto,
Ch' i bianchi han sempre debole la schiena,
Grosso né più nè men d' un salsiciotto,
Ch' un braccio d' huomo lo raguaglia a pena,
Ch' habbia 'l capaccio rovesciato sotto,
E' n su la groppa ima robusta vena,
E' I mostaccio fumante et infocato,
È il ben nostro, il cor nostro e 'l nostro Stato.

Avertite, puttane; questo cazzo
Vuol esser frate; et ogn' altro cazzo è fola, 
E quel che loda il pretesco è un gran pazzo,
Che non sa nulla e mente per la gola.
Sul secolare fottendo, m' ammazzo,
Credete a me, che n' ho tenuto scola,
Pero che mentre ci mette i cristieri,
C' impregna di faccende e di pensieri.

E per venir a la conclusione,
Rispondend' a colei che tanto loda
1 raccamì et i profumi, e tien per buone
Le zazere galanti, e par che goda
Quand' ella tocca di seta un saione,
Caso è che tocchi una solenne coda,
Dura, giovane, grossa, ritta e forte,
E morir tutto 'l dì la sua morte.

J cazzo vuol saper da cazzo schietto,
E l' huomo da huomo, altrimenti dispiace ;
Se 'l cazzo è tatto ambracan e fibetto,
Par che si fotta 'l muschio e la storace.
Un vin che non è concio è pm perfetto,
Un buon cappone al gusto molto piace,
S' egli è senz' acqua rosa innanzi posto,
E sia di puro alesso e puro arrosto.

Questo credo che sia l' archimia vera;
Studiate pur Margotte tutto tutto,
E quel ch' insegna Madonna Palmiera,
Del fotter a cavar qualche buon frutto. »
Qui fece fin la vacca bordelliera,
Ch' ha in fin su l' ossa lo corpo distrutto.
Nel Canto che verrà senza bracchiere
Dirò com' accettossi' 1 suo parere.

 

Capitolo Quarto

Quanti scholari, a Bologna et a Siena
A Padoa, a Pisa, a Perugia, a Pavia,
Han fatt' arco, studiando, de la schiena,
E non imparar mai l' Ave Maria!
Una puttana, in men che non si mena
Un cazzo, sa u la Philosophia

Dà l culetto melato a don Platone,
Et u si chiava Demosten' e Cicerone.

E se può pur uno messer studiante
Qualcosa imparar, fra mille è cavato,
Ogn' altro è più da poco et ignorante
Ch' il Ferretto coglion, beccò sfacciato.
Ma fra le mille migliaia di tante
Puttane ch' in bordel hanno studiato,
Alcuna non fu mai che non sapesse
U' I Diavol tien la coda e le braghesse.

Dunque non fate le stimmate, pazzi,
Se per lettra han parlato le Puttane
E dichiarato d' huomini e dì cazzi
Lor fantasìe ne i fottisteri strane;
Che mi par ch' un nel cicalar m' ammazzi,
Quand' ei disse che son le vecchie Alfane,
Di forma tonde e di natura quadre;
Ma chi 'l disse, in man fusse a queste ladre.

Ch' in man saria d' un barbiere tanto dotto,
Ch' ognor li caveria, tra pelle e pelle,
L' anima e' l cor e' l polmone di sotto,
S' egli ben fosse le Cento Novelle.
Buon per colui ch' è del capretto ghiotto,
E schifo di vaccaccie e di vitelle.
Io per me vel dirò piani e secreto,
I voglio andar a i savi preti dreto.

Ad ogni modo c' è maggior divitìa
A Venetia, e per tutto, di puttane,
Che non è nel Bronzon
ladro malitia,
Menzogne e giunterie fra le ruffiane,
E che non è fra Signori avaritia
E demoni in le sette Luterane;
E fotti chi tu voi, come lo dici,
A nessun guarda, parenti et amici.

Erano mogli già solo de' Frati
Le Monache, et hor son nimphe d' ognuno;
E chiavatisi hora cognate e cognati,
Come non fosse peccato veruno,
Et a quel ch' ha più soldi, a panni alzati,
Corron le donne e metteno a communo
Il dritto et il riverso; onde tadorna
Quasi ciascun di' norpellate corna.

E Perché Roma, Napoli e Milano
Toscana e Lombardia, non già Fiorenza,
A monna Castitade han messo mano,
Non dee più star alcuna in continenza,
Perché di Macometto l' Alcorano
Ad ogni donna da piene licenza,
Che faccia ciò che vuole, ogni hotta,
Del suo culo gentile, e de la potta.

Torno a la Vecchia che conclusione
Porse al suo dir, ch' a le porche più piace
Ch' a Francesi le spalle d' un montone
Et a Muran di vetri ogni fornace;
Et a quel che dett ha sigillo pone
La mia poltrona, ch' ogn' hor più mi spiace
Ch' a Veronesi non fa Gian-Mattheo
,
E la berretta gialla ad un Giudeo.

Poi disse sopra il foiter tante cose
Non più pensate da vacca eccellente
Ch' ognun stupì, et a quel modo si pose
Ch' usa a farsi chiavar solennemente.
Poi lieta a l' altre puttanaccie espose,
Morbo e veneno di tutta la gente,
Ciò che dee far la bocca e le mani,
Quando si fotte in dolci modi e strani.

Talché de le puttane il grand Collegio,
Lussuriose piu che le colombe,
L' adottorò, con gratia e privilegio,
A suon di pive, di corni e di trombe;
Non si fè mai convito a Padoa egregio
Come fu ' 1 suo, e par che mi ribombe
Il rumor ne gli orecchi che fa Siena
Mentre per la cittade ella si mena.

Come ella fu puttana conventata,
Partì per Roma, su forti destrieri,
Et a Baccano giunta la sfacciata
Una schiera trovò di mulattieri,
E non essendo richiesta o pregata,
Fè gli un presente più che volentieri
Del culo e de la potta; ed ogni mulo,
Dopo venne a sfoiar il suo gran culo.

Fatta questa, faitione, et invitta prova,
Gì a Roma ad alloggiar dietro et Banchi.
Come la turba ha intesa la nuova
De' mulattieri ch' ella ha satii e stanchi,
Per fargli far lumache, ostriche et uova,
Et anime cacar converse in granchi,
Il popol venne, che di veder brama
S' è grande il culo suo coni' è la fama.

Prima la buggerar mille acquaroli,
Poi la fottcr cinquecento fornari,
Dapoi sfamarsi assai pizzicaroli,
L' ordine seguitando i macellari,
Poi facchinn, poi Giudei, poi pollaroli,
Hosti, cuochi, sartori e calzolari,
Mozzi di stalla e muy lindi staffieri,
Sbirri, boij, gaglioffi e masnadieri.

In tre dì intieri et una mezza notte,
Satiò la traditora ogni furfante,
E volendo summar tutte le botte
Che i cazzi gli accocchiar dietro e d' inante,
Acciò crepin d' invidia cazzi e potte,
Un spettabile viro mercadante,
Le fè suo conto, e trovò che la vacca
D' oglio m corpo ha due botte, e non è stracca.

Fottiture ottomila arcibestiali
Fur date a lei senza reputatione,
E fur notate a lettre di spetiali
Sopra 'l capo a Pasquino, in Parione,
Qual le virtù de i santi Cardinali,
Degne gentili e prodighe persone,
E le tien Roma più care e più belle,
Che le linee non fa di mastro Apelle.

Otto mil' alme perdute e ' nfardate,
Poiché pregna non fu, cacò nel fiume
La corona e 'l tropheo de le sfondate,
Ch' arderà fra sei mesi in foco e ' n fume:
Moriro i pesci ne l' acque ammorbate
Et in modo l' aere corrompe 'l profumo,
Che la peste vi messe, più eterna
Che la foia in la Corte ogni pincerna
.

Ella fece poi far un palco agiato,
A punto in mezzo di Campo di Fiore,
Dove che i salta in banco fan mercati,
Coglion cavando senza lor dolore;
Et avendo un giorno solenne appostato,
Come ch' apposta a rubarti un sartore,
Sul campo comparì, come un Compare
Comparisce a chiavar la sua Comare.

La carogna ammorbata traditora,
Sul palco fè venir dieci facchini,
I qual sfoderare i cazzi fiora,
Conte sfodran le zappe i contadini.
La cagna porca asina lupa, all' hora,
Rivolta a i cazzi, gli fece li tutti chini,
Come fa a la spada e al brochiero
Un buon maestro dì scrima leggiero.

Poi un cazzo ficossi ne la potta,
Un in culo, un in bocca, uno per mano,
Et ella et essi menavan a un botta ;
Chi spingea forte, chi in fretta e chi piano.
Ne ha quel piacere la fottuttaccia ghiotta,
Ch' i passerotti han di beccar il grano,
Et il popolo rimane stupefatto,
Vedendo cinque cazzi in opra a un tratto.

Mentre l' illustre et unica poltrona
Col cul alti miracoli facea,
Ecco la Spagna et la Magna in persona,
Ch' adosso a Roma in collera correa.
A V armi ogni campana in furia suona ;
Ogni huom misericordia al del chiedea;
Chi figge, chi s' asconde e chi tremando
Dicea: «
Santa Santorum, mi raccommando!»

Intanto ser don Diego e don Odrico,
Don Sancio di Laynes, a far guerr' usi,
Senza conoscer amico o nemico,
Al suon de' musichevoli archibusi,
Entraro in Roma, io tremo mentre ' 1 dico,
Sbuccar facendo i Monsignor rinchiusi,
Populusque Romanus et ogni gente,
Come conta Pasquin, ch' era presente.

Piangea ciascun, ciascun chiedeva aita,
Al fier tirar di questo e quel coglione;
Sol l' Errante ridea, puttana ardita,
Eterna infamia al suo sesso poltrone;
Sol l' Errante non era sbigottita,
A la ruina, a la destruttione
Di Roma,
cauda mundi, e de' suoi Preti,
San, santi, da ben, buoni e discreti.

Lasciam gir Roma a sangue, a ferro, a foco,
Che così volse il Padron d' Ogni Santi ;
Dico che dopo il Spagnolico gioco,
Et i coglioni frappati tutti quanti,
Le borse vote a forqa e poco a poco,
Di Cortigian, di Prelati e di Mercanti,
L' Errante aspettò ' l campo e fece cose
Ladre, ribalde, anzi miracolose
.

Tutto l' Hispano essercito e ' l Thedesco,
Dietro e dinanzi alloggiò un giorno,
Ch' era maggior del grande stuol Moresco,
Che re Carlo a Parigi hebhe già intorno.
Signori, i' non ci allevo e non ci accresco,
Venti mila persone quelli forno
Che fottéro l' Errante mia divina
Senza la stalla e quei de la cucina.

Onde parse che fosse honesto c degno,
Dopo tante vittorie e prove tante,
Dar il Triompho in bel divin disegno
A l' invitta real Puttana Errante;
E così s' ordinò con strano ingegno
Il carro triomphal bello e galante,
Imitando ser Cesar e Marcello.
Intendete ben ben ciò ch' io favello.

L' ordine del Triompho hor diviso:
Prima venia la mandra de' Ruffiani,
Dal Sarraton guidata, in festa et in riso.
Per sfoiar sbirri, Cingani e villani,
Una bandiera havea, fatta improvìso,
Ov' eran tutti i chiassi Talliani,
Che corteggiati havea con humiltate,
Tutta la sua fottuta e verde etate.

Dapoi seguon le ciurme ch in galea
Ella satiò, dal Ponente al Levante;
Move 'l Triompha per strada Giudea,
N' altro y ode gridar che: Errante! Errante!
Segue la ciurma una turba plebea
Gaglioffa, sporca, poltrona, ignorante,
La qual guidava il falsario Bonfio,
Che mille volte ha rinegato Dio.

Il traditor porta ritratti in mano,
Tutti i mercati et anchor tutte te fiere,
E Recanati c Foligno e Lanciano,
Ch' ella honorò con sue bellezzere.
Ecco uno stuol tutto dolce et humano,
Di streghe incantatrici e di Megere,
Et ha ciascuna in man di queste Arpie
Ciò che bisogna ad incanti et a malìe:

Unghie, capegli e funi d' impiccati,
E di non nato fanciullino pelle,
Ossa di morti dal vivo cavati,
Grassa di donne giovenette e belle.
Vasi pieni di lagrime e stillati
D' herbe colte a splendor di certe stelle,
Che disperder i parti et il cervello
Tolgano spesso a quest' amante et a quello.

Segue la schiera de le vecchie care
Un gonfalon che tutti i tradimenti
Tenea dipinti, che la singolare
Errante ha fatti a più. diverse genti:
Ammalare, scannare, assassinare,
Ivi si vede et amici e parenti,

Chi ferito nel collo e chi nel seno,
Chi mor di corda, o dì ferro, o di veleno.

Ecco un altro vessillo Imperiale,
I piacieri del qual fatt' ha il pennello:
Ella stassi colcata al naturale,
E fasse 'l far dal Barba et dal fratello.
Eccoti un altro, suo cugino carnale,
Che gli mette la chiave ne f anello,
Et ella rìde, e mentre ha pieno il tondo,
Vorria che la vedesse tutto 'l mondo.

Seguono poi alcune sue magalde,
Che picciolette imagini in man hanno;
Queste sono, Signor, quelle ribalde
Che i parti a gli hospedali a portar vanno.
Invilupati de i panni in le falde.
Che Spedali dich' io ? anzi gli danno
A cacatoi' , a canali, a sotterra,
Acciò che non si sappia per la terra.

L' ordine va seguendo ma carretta,
La più grande ch' io mai vedessi forse,
Tutta piena di furti ch' ella in fretta
Rubbò a ehi presto a chiavarla corse:
Più furti fè la vacca maledetta,
Che ' l Spavento non fè a scarselle e borse;
Tolte a gli amanti ella, dormendo seco,
Qual tolse a me, quand' Amor femmi cieco.

L' Infamia appar; e tutta altera viene,
Col volto invetriato e ' l segno in fronte:
Mozze ha le orecchie e poco naso tiene,
La mitria in capo che par propri' un monte,
Di sangue marcio te spallaccie ha piene,
Senza vergogna di sue virtù conte,
Un libello in man porta ove è notata
De l' Errante la vita arcisfacciata.

In mezzo a due poeti laureati,
La diva Infamia move i sacri passi,
Di bietole e di fave incoronati,
Con gratia e privilegio babbuassi.
Costoro i suoi gesti han celebrati
Con rime ladre, da banchi e da chiassi,
Con quel poeta ch' ha fatto immortali
I cardi, le prìmere e gli orinali.

II goffo Tinto, poeta que pars este
Marcon buffone, è un de i duo poeti,
Il qual salva la loica ne le ceste
Per dispensarla a putti, a frati, a preti;
L' altro è ser Quinto, eh ' l di delle feste
Chiava le Muse sopra due tapeti ;
Questi ser bestii, con un siti furfante,
Cantan gli honor de la Puttana Errante.

Ser Quinto streggia il caval Pegaseo,
Et il Tinto gli dà ber e Io strame,
Et ha promesso a tutti duo Orpheo
Donare le regaglie del letame.
O salvatico Quinto, semideo,
E tu, Marcon, nausevolmente infame,
Vol coronarvi l' Errante Puttana
Di spine, di carciofi e di borrana.

Dopo i poeti porci e pecoroni,
Vengono forse due cento instrumenti:
Pive ladre, con certi ladri suoni,
Che intuonano le orecchie agli Elementi,
Con certi rauchi di villan tromboni
Da far cacar nelle brache a le genti,
Corni, baci, tamburi e cornamuse,
Da intertenir puttane goffe use.

Del suono di fersore e di padelle,
Del batter de la man, de i fischi e grida,
Sale il rumor a conturbar le stelle;
S' odono al cielo le scelerate strida.
Due sue puttane et uniche sorelle,
Coppia al bordel honorevole e fida,
E tutta quanta sua genealogia,
Al carro triomphal fan compagnia.

V ' eran suoi ladri ardavi et avi e zii,
Cugin, nepoti, cognati e fratelli,
Che humani, mansueti, humani e pii,
Hansi lasciati da tutti i Bargelli,
Senz haver fede veruna ne' Dii,
Bollar, scopar, con modi dolci e snelli;
Et in man ciascun di lor sua vita porta,
Et al carro famoso fan la scorta.

Un asina, una troia et ma vacca
Et una cavallaccia, a passo lento
Tirano ' 1 carro, ù l' Errante zambracca
Triompha con un cor tutto contento,
E perch' ell' ha Spagna e la Magna stracca,
Esser le par Semìramis, e spento
L' orgoglio humano parle aver con sesso,
Id est col culo , a dirlo breve e spesso.

Xerse a sua posta in Grecia con gli armati,
A sua posta ser Cesar, cento mila
Puttane son per un de' lor soldati,
Et a due a due andavan a la fila
Havendo in compagnia tutti i peccati ;
La Gola c' è, con cui ' l viver compila,
Con gli altri sei, de' quali ella si vanta,
E de' quali il Venier continuo canta:

Dishonestà sfacciata a la fronte era,
Condegna par di sue virtù divine,
Che la fa andare sopra le vacche altera,
Imprudentìa, Ignorantia, a lei confine,
Sfrenata Foia, vaccamente fiera,
Ch' ella ha sempre per mille concubine,
Habito di puttana in mezzo ' l core,
Disio d' infamia c sol timor d' honore

Era la sua vituperosa insegna
Un cazzo grosso come un cagnolino,
Che caruoli
bestiali al collo tegna,
Guadagnati nel fotter assassino.
O Errante sacrosanta ! Errante degna!
Sfogar ben puoi il tuo fatai destino,
E donargli il cul dolce in hora buona,
Poi che de le puttane ei ti corona.

In tanto il carro per Roma cammina,
Non dico per Via Sacra o per Via Lata,
Ma per la strada con pompa divina,
Che richiede la sua gloria sfacciata,
Et inverso Ponte Sisto s' avicina
Ove tota la turba scelerata
Corre per veder giù scender dal carro
L' Errante, propria vaccaccia da carro.

A Pontee Sisto giunse; ivi depose
Sua corona di catfi, e non di foglie;
Ivi, con sue maniere stomacose
Lasciò le sue fottute e ladre spoglie;
Poi volò fino a Napoli e fe' cose
In quel paese, ove 'l bordel l' accoglie,
Che s' ella così tosto non partia,
A Napoli il Triompho anchor havia.

Per Venetia partì, et un' altra volta
Canterò qual Venetia in punto messe
Sue famose puttane in pompa molta,
A ciò V Errante mia si ricevesse.
E per ch' i ho la lingua scelta e sciolta,
Per mio carco terrei che si tacesse
Chi s' ellesser puttane traditore
A ricever l' Errante a grand honore.